La storia della diaspora Istriano-Giuliano-Dalmata ha un ultimo atto a chiusura di una terribile trilogia che, dopo il capitolo sulle violenze, le intimidazioni, le sparizioni, gli infoibamenti e quello (lunghissimo) sull’esodo, si chiama Campo Profughi.
È l’ultimo atto -anche se non la conclusione- della tragedia vissuta in queste terre nel dopoguerra. E ha una sigla: C.R.P. Centro Raccolta Profughi.
Un marchio d’infamia, che non è inciso sulla pelle, ma è stampato dalla storia nel cuore, per gli esuli Istriani che si portano quel cartellino indelebile al collo. Qualunque vita possano essersi ricostruiti, in qualunque luogo, sarà sempre e comunque lontano dalla terra dove sono nati. Non più uomini o donne, ma numeri, vittime della pulizia etnica del maresciallo Tito, obbligati dal terrore di macellai più bestie della Bestia di biblica memoria.
Quelle comunità perseguitate e sgomente non potevano certamente avere nessuna colpa, o -forse- quella di essere italiani e da un certo punto di vista (quello jugoslavo) lo era.
Quelle famiglie, diventate improvvisamente e drammaticamente esuli, sono state –in modo premeditato- frammentate socialmente dopo che era già stata cancellata la tradizione della famiglia e, molto spesso, della personalità.
Tutti quelli colpiti da questa disgregazione multipla sono state vittime.
Vittime di se stessi, bravi nel lavoro -che significa vita e famiglia, e quindi società- ma anche culturalmente modesti: perché “prima si mangia e poi si pensa”. Animaleschi in questo, ma non bestiali, formiche industriose e mai cicale, neanche quando sarebbe servito urlare. Hanno sofferto e combattuto una vita per togliersi di dosso l’odore dei Campi Profughi che non se ne voleva andare.
Era un odore intenso: acre e dolce, nato dalla commistione del cibo di tutte quelle mense improvvisate e neorealiste sparse nella penisola e le isole, o del pasto cucinato sulle spirali dei fornelli elettrici appoggiati sul banchetto nei box delle baracche di San Sabba, o quello pungente della naftalina dell’abito stantio (l’unico) che si toglieva e rimetteva. E poi l’odore, -quasi sapore- dei capelli che non potevano essere lavati. Hanno ricostruito i pezzi di un “io” disperso immersi in queste sensazioni che sapevano di minestra, di brodo “finto”, di “spazzapan” e “panadela”, di beceri pastoni che costavano poco, di vitamine mancanti, di anemie congenite, di abiti pagati dall’E.C.A., l’Ente Comunale di Assistenza.
E tutto questo è capitato a loro che hanno “dovuto” abbandonare le case dove erano nati e prima di loro i genitori e i nonni. Loro, che arrivati “in Italia”hanno dovuto conoscere e sopportare l’astio e la cattiveria degli “italiani” loro confratelli, ma che li chiamavano fascisti e gli sputavano addosso. Anche in luoghi insospettabili, dove non sono potuti scendere dal treno che li portava ai centri di raccolta: neanche per fare bere ai loro bambini una tazza di latte caldo.
Loro, che -quando ci sono riusciti- hanno ri-trovato casa e un lavoro, ma sempre guardati con ostilità e sospetto da chi gli stava intorno. E hanno dovuto ricominciare da scantinati, tuguri e stamberghe affittati “prendere o lasciare” in attesa delle prime case popolari.
Tutto questo, fino a quando hanno iniziato a conoscerli, a capire che erano come loro, che volevano soltanto un lavoro ed un po' di tranquillità per ricostruire la famiglia.
Eppure le catapecchie e le camerate del campo profughi se le sono portate dietro, nella testa, per molti anni: anche quando ne sono usciti.
E non solo perché continuavano ad avere l’acqua -anche se in cortile- e il gabinetto in comune, mentre a casa loro era tutto in casa.
Verosimilmente i loro genitori, anche anni dopo, non hanno mai parlato nei dettagli con i figli più piccoli di quello che era accaduto. Si sono rimboccati le maniche e -in un silenzio umile- li hanno cresciuti. Hanno però trasferito quel senso di ingiustizia, pudore e miseria indotta, che spariva con difficoltà ma lasciava intera una sfumatura di tristezza.
I loro genitori si sono vergognati e hanno continuato a portare quel senso di vergogna dentro. E solo dopo tanti (troppi) anni si sono chiesti perché.
Perché, se tuo padre era un mugnaio -come lo erano i tuoi nonni- o un pescatore, che faticava a vincere la vita giorno per giorno, dovevi sentirti colpevole e loro stessi vivere questa sensazione?
Perché migliaia di persone, umili e oneste, hanno dovuto subire tutte queste ingiustizie? Non lo sapevano: non lo sapevaMo. Nessuno ce l’aveva mai detto.
Molti dei nostri vecchi non l’hanno mai capito. E se ne sono andati senza capirlo.
Ai miei genitori.
Nessun commento:
Posta un commento