Mercoledì 3 dicembre, è stato approvato al senato il Jobs Act. La minoranza del PD ha votato con “riserva” ovvero voto favorevole per tenersi ben salda la cadrega. Il dibattito finale a Palazzo Madama è avvenuto nella disattenzione generale. Qualcuno guarda l'Ipad, qualcun altro un catalogo di gioielli. Fuori le strade sono blindate dalle camionette della polizia dopo gli scontri a Botteghe Oscure. Dentro delle proteste non si sente niente: solo il disagio di non poter uscire per pranzo …
Il “JOBS ACT” di Renzi l’ha scritto Confindustria. Non è un’esagerazione, ma la lettura comparata tra il testo “Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione” pubblicato da Confindustria a maggio e il DDL delega uscito dalla Camera sono uguali. Esiste anche una conferma negativa: il Jobs Act reale non ha infatti praticamente niente a che fare con le linee guida che Renzi annunciò in pompa magna a gennaio.
Sono anni che gli imprenditori tentano di manomettere lo Statuto dei lavoratori, ma non era mai capitato che un governo facesse proprie le loro proposte senza cambiarle di una virgola. Per capirci : nemmeno Berlusconi era arrivato a tanto. Nel testo di Squinzi & C. l’obbiettivo è chiaro : la riduzione dei salari “Nel 2010 e 2011, all’accentuarsi della crisi, sia in Germania che in Spagna si è operato un aggiustamento verso il basso del livello delle retribuzioni reali, non così in Italia”.
Lo avevamo detto in precedenza a cosa realmente puntava Renzi …
Ora per farvi capire bene in cosa consiste questa riforma porcata, vi riportiamo la storia di “un impiegato nel mondo del Jobs Act” di Marco Palombi pubblicata su “Il Fatto Quotidiano” del 28 novembre.
DISCESA AGLI INFERI PROSSIMA VENTURA: DAL PC CONTROLLATO ALLE TELECAMERE DAL DECLASSAMENTO AL LICENZIAMENTO (E RIASSUNZIONE A METÀ STIPENDIO)
“E io contavo i denti ai francobolli, dicevo grazie a dio, buon natale”. A differenza dell’impiegato di Fabrizio De André, questa storia non inizia col maggio francese e non finisce con la bomba che debutta in società: questa è la storia di un impiegato nel mondo della Leopolda, quello in cui il Jobs Act è il nuovo Statuto dei lavoratori, una storia di quando il futuro sarà il presente. Avvertimento preliminare: tutto quello che verrà raccontato è coerente con le disposizioni del ddl delega sul lavoro che è diventato legge.
Sul luogo di lavoro Stalin non ti vede, l’imprenditore sì
Milano. Anno decimo dell’era renziana del mercato del lavoro. Interno giorno. Un classico ufficio, tre postazioni di lavoro, una grande finestra, è l'ora di pranzo e un uomo solo guarda verso l’esterno. È Carlo G., laurea in Economia e Commercio, 45 anni, impiegato da sette alla XXX SPA, media società che fornisce servizi logistici, sposato , due figlie. Carlo G. è un amministrativo e si occupa di preparare le buste paga: da contratto lavora sette ore e 12 minuti al giorno, che poi nella realtà sono spesso più di otto, guadagna 1.950 euro netti al mese, non è iscritto a nessun sindacato e non s’è mai lamentato, i suoi capi lo apprezzano. Oggi, però, l’impiegato Carlo G. è preoccupato. Gli è arrivata una email dalla direzione: “Stante che un Dpcm del 2015 (governo Renzi) ci autorizza a utilizzare forme di controllo a distanza sui dispositivi aziendali, questa direzione è qui a chiederle informazioni sul suo comportamento del 15 novembre u.s. Dai dati raccolti sul suo Pc risulta infatti che le operazioni di compilazione delle buste paga siano state interrotte senza apparente motivo tra le ore 15:12 e le ore 16:03. Come risulta inoltre dalla telecamera puntata sulla sua postazione – e non su di lei, ovviamente, come prescrive il Dpcm citato – lei si è assentato dalla postazione non solo in quel lasso di tempo, ma anche per mezz’ora nel pomeriggio di due giorni dopo”. Carlo G. suda freddo e ricorda. Nel primo caso era dovuto correre a prendere la bambina a scuola senza aver tempo di avvisare nessuno; la seconda era stato colto da una fastidiosa indigestione: “Mandare quelle spiegazioni al direttore sarà un po’ imbarazzante, persino un po’ indecoroso, ma mica posso perdere il lavoro per vergogna...”.
Cosa non capivo quando si parlava di demansionamento
Interno giorno. Mattina. Sono passati quasi due mesi. È gennaio e l’incidente delle assenze ingiustificate è passato senza lasciare traccia. O almeno così pare. Il capo del settore amministrativo è nell’ufficio e sta spiegando le novità a un attonito Carlo G.: “L’azienda ha deciso di riorganizzare i propri assetti interni e così l’amministrativo verrà fuso col commerciale per realizzare economie di scala ed evitare lungaggini e inutili duplicazioni di funzioni. Purtroppo, caro G., la sua posizione non è più disponibile e dunque lei in futuro si occuperà di alcune esigenze operative dell’ufficio”. “Cioè?”. “Qualunque cosa serva: dal fare le fotocopie al distribuire la posta fino a occuparsi di qualche pratica all'esterno”. “Ma io sono laureato, sono inquadrato in una categoria più alta e ci sono almeno tre postazioni libere del mio livello... Voi non potete...”. “In realtà possiamo eccome: se lo ricorda il Jobs Act? Ovviamente, se lei volesse privarci del suo contributo ne
saremmo addolorati, ma è un suo diritto e sui diritti non si scherza, per carità...”.
Addio ai privilegi: il niente che resta dell’articolo 18
Alla fine Carlo G. non si è dimesso, ma ad aprile è depresso, svogliato, tormentato da piccoli malanni. Ormai la riorganizzazione è completata e lui, dal colletto bianco con buone speranze di carriera che era, si ritrova galoppino dei suoi ex colleghi. L’unica cosa buona è che almeno ha mantenuto lo stipendio: cioè quasi, qualche indennità di responsabilità in meno gli ha tolto quasi 80 euro netti al mese. Oggi l’ha chiamato il capo del personale: “Vede G., noi siamo come una famiglia, ma la crisi economica e la competizione internazionale ci costringono a essere molto attenti ai costi, anche a quello del lavoro. E qui veniamo a lei, caro G.: lei ultimamente è svogliato, dal dispositivo Gps del suo telefonino aziendale risulta che quando esce per servizi esterni si attarda senza motivo al bar dall’altra parte della strada. E poi, vede, un dipendente che svolge il suo lavoro guadagna netti 1.300 euro, lei sfiora i 1.900. Capisce che per noi non è razionale, quindi avremmo deciso di fare a meno dei suoi servigi...”. “Ma come? Mi licenziate su due piedi per una pausa di dieci minuti al bar? Ma voi non potete...”. “In realtà possiamo. Anzi no: per caso lei è gay?”. “No”. “Allora non può neanche accusarci di discriminazione, possiamo: si ricorda il Jobs Act? Per legge le dobbiamo solo un indennizzo”.
Com’è di sinistra il salario minimo. Oppure no?
Milano. Esterno giorno. Agosto. Carlo G. s’avvia al lavoro: è presto ma vuole arrivare mezz’ora prima dell’inizio. Da un paio di settimane l’hanno assunto in una ditta che lavora nell’indotto della XXX Spa, sempre settore della logistica: fa di nuovo il galoppino, solo che invece dei 1.900 euro che erano il suo stipendio prima e dei 1.300 che il Contratto nazionale prevede per quella posizione, ne guadagna 900. Quando ha provato a farlo notare al capo del personale, però, quello ha ritirato fuori il Jobs Act: “Se lo ricorda? La nostra associazione datoriale non ha firmato il rinnovo del Ccnl e quindi il Jobs Act ci consente di applicare il salario minimo stabilito per legge, che fa appunto 900 euro. Fortunato lei, anzi, l’hanno appena alzato di 50 centesimi l’ora...”. E così Carlo G. si ritrova a guadagnare 900 euro, come quando faceva il cameriere per mantenersi all’università, ha paura di tutto, soprattutto delle telecamere che lo riprendono tutto il giorno, ma sta zitto perché almeno non è disoccupato. Il suo unico problema è quella strana parentela che sente tra le frasi “se lo ricorda il Jobs Act?” e “qui chi non terrorizza, si ammala di terrore” (De André).
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