venerdì 9 febbraio 2018

Racconti dell’Esodo Istriano

Ricordo che il nostro era un paesino bagnato per tre parti dal mare ed i suoi colori contrastavano con il giallo  delle moltissime ginestre ed il rosso della terra: colori che porto nel cuore.
E poi gli amici, le amiche… ci si conosceva tutti.
Dopo la guerra però, ci sono state cose brutte che ci hanno costretti ad andare via: a lasciare la nostra terra. Per anni ho lottato -con enormi difficoltà- per provare a ritrovare me stessa dentro di me. 
Ci sono voluti molti anni per recuperare quell’identità che avevo lasciato lì, al mio Paese, da bambina.
Ricordo che in prima e seconda elementare dovevamo portare la divisa da balilla, da piccola italiana, ma solo nei primi due anni; dopo non più.
Ci facevano sempre salutare con il saluto romano e in quegli anni avevamo un’insegnante tedesca che mi è rimasta nella memoria per la sua severità. Ricordo bene quando sono arrivati i titini perché ero un pochino più grande; probabilmente frequentavo la quinta elementare. Prima che i partigiani slavi arrivassero in paese, i gerarchi fascisti decisero di creare tra i giovani una sorta di milizia per rallentare il loro arrivo,  anche se ormai erano alle porte. 
I genitori non li volevano lasciare andare perché i ragazzi lavoravano in campagna, nelle botteghe o nel forno, ma -improvvisamente- sono arrivate delle cartoline spedite dall’esercito tedesco (poi risultate false) dove si minacciavano arresti o deportazioni per chi non partecipasse. 
Tanti ragazzi tra i 24 ed i 30 anni - tra i quali mio fratello-  hanno dovuto, per  forza di cose, arruolarsi.
Hanno, malvolentieri, indossato la divisa grigio-verde iniziando di notte a fare le ronde in paese per verificare che non entrassero i titini.
Un altro ricordo che mi fa venire i brividi risale ad una mattina, quando mio fratello è tornato a casa piangendo disperatamente, raccontando che avevano dovuto sparare al padre di un loro compagno , perché era di sinistra...
E quando sono arrivati i partigiani slavi, hanno trascinato con loro quasi tutti quei ragazzi con la divisa; molti non sono più tornati a casa. 
Ho visto anche mio fratello portato via in fila indiana e con le mani legate con del filo di ferro. Io e mia madre, appena saputo dov’era rinchiuso, siamo andati a portargli un pacco con qualche indumento, ma ci hanno fermate all’entrata.  Tra urla e rumore di catene, abbiamo sentito chiamare il suo nome, ma non abbiamo potuto incontrarlo: non ce l’hanno fatto vedere. Purtroppo, non l’abbiamo più visto.
Qualche giorno dopo, il prete venne a trovarci comunicandoci che era morto, insieme a molti altri.  Abbiamo sperato per anni che fosse scappato e fuggito chissà dove. In realtà era finito in una foiba poco distante da casa.
Ad un certo punto, nel 1949, abbiamo deciso di lasciare tutto e partire portando con noi quello che si poteva. Siamo arrivati a Trieste e subito dopo ad Udine, dove ci siamo ritrovati a dormire in 20 in uno stanzone…
Siamo infine stati ‘destinati’ a Pisa, dopo che mio padre aveva rifiutato Napoli e Gaeta perchè ‘troppo lontane’ dal nostro paese. Arrivati là ci hanno dato un cestino con qualcosa da mangiare, dicendoci: arrivati a Migliarino vi fermerete.  Con valigie di cartone e due casse contenenti quel poco che siamo riusciti a portare con noi, siamo arrivati nel campo profughi (eravamo diventati profughi !) dove ci hanno assegnato una baracca fatta con uno scheletro di legno e ricoperta con dei teli. 
Inizialmente ci davano qualcosa da mangiare e andavamo a prendere le nostre dosi di pasta appiccicosa e immangiabile con una pentola. Poi, fortunatamente, mia madre è riuscita a recuperare qualche uovo nelle vicine fattorie e mio padre a coltivare un piccolo orto.
I contadini dei dintorni, che ogni tanto incontravamo, hanno iniziato a volerci bene e mentre papà e mamma hanno trovato da lavorare, io mi occupavo dei miei fratelli.  Qualche tempo dopo,  ho ripreso ad andare a scuola fino ad arrivare -negli anni a seguire- a diplomarmi a Pisa. In seguito, ci è stata anche assegnata una casa in un paese vicino e lì abbiamo finalmente iniziato la nostra seconda vita cercando di dimenticare i torti, la violenza e la vergogna subiti.
Un ultimo ricordo che mi ha perseguitata per anni è che quando raccontavo a qualcuno che ero Istriana, alcuni nemmeno sapevano cosa e dove fosse l’Istria. 
Altri ancora ci consideravano ‘gente privilegiata’. Forse non sapevano che noi (350 mila Italiani Istriani-Giuliano-Dalmati) avevamo pagato per tutta l’Italia. 

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